“Nonostante dieci anni di pratica spirituale e cinque di
psicoterapia, Leslie era ancora infelice. Incapace di controllare la
frustrazione quando avvertiva un rifiuto, si chiudeva in sé piena di
rabbia, mangiava fino a sentirsi male e si metteva a letto. Quando il
suo terapista le consigliò di prendere l’antidepressivo Prozac, si sentì
offesa, pensando che una simile azione sarebbe andata contro i suoi
precetti buddisti.”
Mark Epstein è praticante buddista, psichiatra e autore di diversi
libri sul buddismo e la psicologia. In questo articolo costruisce un
ponte tra i mondi generalmente distanti della meditazione e della
pratica psichiatrica.
I farmaci e la pratica
Nonostante dieci anni di pratica spirituale e cinque di psicoterapia,
Leslie era ancora infelice. A chi la conosceva superficialmente non
appariva depressa, ma per gli amici intimi e le persone che amava aveva
un carattere difficilissimo. Soggetta a minacciosi attacchi d’ira quando
si sentiva anche minimamente trascurata, Leslie si era alienata la
maggior parte delle persone che le erano state vicine durante la vita.
Incapace di controllare la frustrazione quando avvertiva un rifiuto, si
chiudeva in sé piena di rabbia, mangiava fino a sentirsi male e si
metteva a letto. Quando il suo terapista le consigliò di prendere
l’antidepressivo Prozac, si sentì offesa, pensando che una simile azione
sarebbe andata contro i suoi precetti buddisti.
Negli antichi testi buddisti si racconta come il re di Kosala dicesse
al Buddha che, a differenza dei seguaci delle altre religioni,
dall’aspetto macilento, rude, pallido ed emaciato, i discepoli del
Buddha sembravano “gioiosi ed esultanti, giubilanti ed euforici, felici
della vita spirituale, dalle facoltà soddisfatte, liberi dall’ansia,
sereni, tranquilli e con la mente di una gazzella”. L’idea che gli
insegnamenti del Buddha debbano provocare uno stato mentale altrettanto
piacevole è ancora molto diffusa negli ambienti buddisti di oggi.
Per molte persone, la meditazione buddista ha tutto ciò che occorre
per essere una psicoterapia alternativa, compresa l’aspettativa che una
pratica intensa deve riuscire a trasformare qualsiasi esperienza emotiva
sgradevole. Ma la verità non detta è che molti studenti avanzati del
dharma, come Leslie, hanno scoperto che sentimenti inabilitanti di
depressione, agitazione o ansia resistono anche a un lungo periodo di
pratica buddista. Questa angoscia è spesso aggravata da un senso di
colpa riguardo la persistenza della depressione, oltre che dalla
sensazione di aver “fallito” come studenti del dharma.
Tale situazione è analoga a quella di un seguace della medicina
naturale che – nonostante i cibi naturali, gli esercizi, la meditazione,
le erbe e le vitamine – si ammalasse di cancro. Come ha detto Treya
Wilber in un articolo scritto prima della sua scomparsa prematura dovuta
a un cancro al seno, l’idea che dovremmo assumerci la responsabilità di
tutte le nostre malattie ha i suoi limiti.
«Perché hai scelto di darti il cancro?» è la domanda che molti amici
“New Age” le rivolsero, provocando in lei sensi di colpa e
recriminazioni simili a quelli che spesso provano gli studenti del
dharma malati di depressione. Amici più sensibili le si avvicinarono con
la domanda leggermente meno sgradevole: «In che modo hai intenzione di
usare questo cancro?». Una domanda che, secondo le sue parole, la fece
sentire “investita di potere, sostenuta e sfidata in modo positivo”.
In presenza di una malattia fisica, forse, è un po’ più facile
realizzare questo cambiamento; con una malattia mentale,
l’identificazione è sovente così grande che è estremamente difficile
riuscire a creare un distacco, vedendola come un sintomo di una malattia
curabile anziché come un’evocazione della condizione umana.
Naturalmente, la Prima Nobile Verità sostiene l’universalità della dukkha,
della sofferenza o, per usare una traduzione migliore,
dell’inappagamento universale. La disperazione della depressione, il
dolore dell’ansia o il disagio della disforia (depressione leggera) sono
semplici manifestazioni della dukkha, o facciamo torto a noi stessi e
al dharma aspettandoci che qualsiasi tipo di dolore mentale si dissolva
una volta divenuto oggetto di consapevolezza meditativa?
La grande forza del buddismo sta nell’affermazione secondo cui tutti i
contenuti della mente nevrotica possono trasformarsi in cibo per
l’illuminazione, e la liberazione della mente è possibile senza la
risoluzione di tutte le sue nevrosi. Questo punto di vista provoca un
sollievo immediato in molti occidentali, che così si sentono accettati
dai loro insegnanti del dharma per ciò che sono. Inoltre, l’accettazione
e l’amore incondizionati provocano una gratitudine e un apprezzamento
profondi.
Questo è un contributo inestimabile della psicologia buddista: la
capacità di trasformare quello che spesso è un punto morto nella
psicoterapia, cioè quando il nucleo nevrotico è stato portato alla luce,
ma non si riesce a fare nulla per sradicarlo.
La situazione di Eden esemplifica tutto ciò. Scrittrice, dall’età di
ventinove anni ella cominciò a provare sensazioni opprimenti di vuoto o
vacuità. Avendo già alle spalle dieci anni di psicoterapia intensiva,
aveva compreso che la sua sensazione di intorpedimento e i suoi bisogni
provengono da carenze emozionali della sua giovinezza. Suo padre, uno
scienziato freddo e distaccato, evitava i figli ritirandosi nel
rarefatto mondo intellettuale della ricerca scientifica, mentre la madre
era molto amorevole e protettiva, ma indiscriminata nelle sue
attenzioni: elogiava Eden per qualsiasi cosa, provocando in quest’ultima
dubbi sul suo affetto.
Eden era arrabbiata ed esigente nelle relazioni: perdeva la pazienza
per qualsiasi difetto o incapacità del partner di soddisfare tutti i
suoi bisogni. Grazie alla psicoterapia, aveva riconosciuto l’origine del
problema, ma non ne aveva trovato sollievo. Continuava a idealizzare e
poi svalutare i suoi uomini, senza riuscire a stringere con essi una
relazione intima.
Il vuoto interiore di Eden era un buon esempio di quello che lo
psicoanalista Michael Balint ha definito il “rammarico del difetto
basilare”: “Il rammarico o il rincrescimento che ho in mente riguardano
la realtà incancellabile di un difetto o di una imperfezione che, di
fatto, allunga la sua ombra su tutta la vita, e i cui effetti negativi
non possono mai essere completamente trasformati in positivi. Anche se
l’imperfezione può guarire, la sua cicatrice resterà per sempre; cioè,
alcuni dei suoi effetti saranno sempre dimostrabili”.
Nel caso di Eden, nessun antidepressivo si rivelò efficace. Per
trovare sollievo, ella dovette affrontare direttamente la sua sensazione
interiore di vuoto, rendendosi conto che ciò che stava desiderando
ardentemente non l’avrebbe più appagata. Poiché da bambina non aveva
goduto delle necessarie attenzioni, si accorse che se qualcuno cercava
di prestarle attenzione nella sua vita adulta, si sentiva oppressa e
soffocata. Solo grazie alla tranquilla stabilizzazione della
meditazione, riusciva ad affrontare l’ansia di questa sensazione
interiore di vuoto senza reagire violentemente a essa.
Questo illustra l’approccio buddista. Una persona deve trovare il
coraggio o l’equilibrio mentale per affrontare il proprio nucleo
nevrotico o “difetto basilare” attraverso la disciplina della
consapevolezza meditativa. Nella concezione buddista, tutti gli elementi
della personalità hanno il potenziale di trasformarsi in veicoli per
l’illuminazione; tutte le onde della mente non sono altro che
un’espressione dell’oceano della grande mente.
La malattia mentale non è un concetto molto sviluppato nel pensiero
buddista, se non forse in senso esistenziale, dove troviamo un’analisi
squisita. I testi buddisti parlano dei due mali: uno interiore,
consistente nella convinzione di un sé permanente ed eterno, e uno
esteriore, consistente nel desiderio di un oggetto reale. L’oggetto
dell’attenzione, nella psicologia buddista, è sempre la condizione
esistenziale dell’ego soggettivo, espressa particolarmente bene da
Richard De Martino nel classico Psicoanalisi e buddhismo zen
(1960; in collaborazione con Erich Fromm e D. T. Suzuki): “Condizionato e
dipendente dagli oggetti, l’ego è anche ostruito da questi ultimi.
Nella soggettività in cui è consapevole di se stesso, l’ego è allo
stesso tempo separato e isolato da se stesso. Non può mai, in quanto
ego, contattare, conoscere o avere se stesso nella piena e genuina
individualità. Qualsiasi tentativo in questo senso lo rimuove come
soggetto in perenne arretramento dalla sua stessa presa, lasciando
semplicemente un oggetto immagine di se stesso. Continuamente elusivo a
se stesso, l’ego ha se stesso meramente come oggetto. Diviso e
dissociato nel suo centro, è al di là della sua stessa portata,
ostruito, rimosso e alienato da sé. Nell’avere se stesso, non ha se
stesso”.
È a questa aspirazione esistenziale verso il significato o la
completezza, e alle sensazioni interiori di vuoto, mancanza, isolamento,
paura, ansia o incompletezza, che la psicologia buddista si rivolge più
direttamente. La depressione, in quanto entità critica, viene raramente
considerata. I cinquantadue fattori mentali dell’Abhidhamma (i
testi psicologici del buddismo tradizionale), per esempio, contengono
un compendio di emozioni afflittive come l’avidità, l’odio, la vanità,
l’invidia, il dubbio, la preoccupazione, l’inquietudine e l’avarizia, ma
non includono la tristezza, eccetto che come un sentimento spiacevole
in grado di tingere altri stati mentali. La depressione non è
menzionata.
Nel tradizionale Abhidhamma, la mente viene descritta come un organo
di senso, o “facoltà”, allo stesso modo dell’occhio, l’orecchio, il
naso, la lingua o il corpo, che percepisce concetti o altri dati
mentali, controlla gli altri organi di senso ed è soggetta a
“oscuramenti”, veli di emozioni afflittive che oscurano la natura
autentica della mente. La facoltà della mente e la consapevolezza
prodotta da essa vengono considerate la fonte primaria della sensazione
“io sono”, che è quindi presupposta reale.
Ma nella letteratura buddista non esiste un’analisi approfondita
della propensione della mente a dissesti cui non è possibile porre
rimedio con la sola pratica spirituale. Man mano che il buddismo si è
evoluto, la sua attenzione si è concentrata ancora di più sulla scoperta
della “natura autentica” della mente, piuttosto che sull’analisi della
malattia mentale. Tale “natura autentica” è la mente rivelatasi
naturalmente vuota, chiara e senza ostacoli. Il senso della pratica
della meditazione è diventato l’esperienza della mente in questo stato
naturale.
“Parlando in termini assoluti”, ha scritto il compianto maestro di
meditazione tibetana Kalu Rinpoche, “le cause del samsara sono prodotte
dalla mente, e la mente è ciò che ne sperimenta le conseguenze.
Null’altro che la mente crea l’universo, e null’altro che essa lo
sperimenta. Tuttavia, sempre parlando in termini assoluti, la mente è
fondamentalmente vuota; in sé e per sé non esiste. La comprensione che
la mente, creatrice e sperimentatrice del samsara, non è reale in sé,
può certo rappresentare un grande sollievo. Se la mente non è
fondamentalmente reale, non lo sono neanche le situazioni da essa
sperimentate.
La scoperta della natura vuota della mente e il rifugio in tale
scoperta possono essere fonte di grande sollievo e rilassamento nel
tumulto, nella confusione e nella sofferenza che costituiscono il
mondo”. Un bagliore di questa verità può provocare, da un punto di vista
psicoterapeutico, una grande trasformazione, ma essa è piuttosto
sfuggente per coloro la cui mente non riesce a prendere rifugio nel
proprio stato naturale a causa di un’ansia, una depressione e uno
squilibrio mentale profondi.
Timothy era un fotografo di successo la cui vita andò improvvisamente
a pezzi. Il terapista che da quattro anni lo seguiva morì
improvvisamente per un attacco di cuore, alla moglie venne diagnosticato
un cancro al seno che necessitava contemporaneamente di un intervento
chirurgico e di chemioterapia, mentre la sua gallerista fallì
improvvisamente e chiuse la sua attività senza versare a Timothy le
migliaia di dollari che gli doveva. Il suo studio sembrava contaminato
dalle ansiose ore passate al telefono con la moglie e i dottori di lei;
non vi riusciva più a prendere rifugio, e d’altra parte, a che pro
andarci se nessuno gli vendeva le opere?
Nulla aveva più senso, gli sembrava di essere immerso nella morte e
nell’angoscia, e cominciò a essere ossessionato dalla propria salute.
Non essendo un attivo praticante spirituale, Timothy non disponeva di un
contesto in cui collocare il dolore che l’aveva improvvisamente
travolto; non sapeva come restare in quest’ultimo continuando la vita di
tutti i giorni, e come essere presente al dramma della moglie.
Controvoglia, andò con lei a un seminario di Jon Kabat-Zinn su come
affrontare le malattie gravi; qui nacque il suo interesse verso la
pratica buddista.
Lentamente, riscoprì la sua vitalità e tornò a prendere possesso
dello studio; inoltre, imparò a relazionarsi con la moglie in un modo
che l’ansia non esaminata gli aveva impedito. Ma la cosa più importante
fu che la pratica del dharma sembrava dargli un metodo per sperimentare
l’agonia mentale senza soccombere all’incredibile dolore da essa
prodotto.
Quella di Timothy era una situazione in cui la medicina sarebbe stata
fuori luogo. La sua crisi era esistenziale o spirituale, oltre che un
caso di angoscia inesplorata; ed egli riuscì a trovare un po’ di quel
sollievo cui fa riferimento Kalu Rinpoche.
Il desiderio che la meditazione possa, in sé e per sé, rivelarsi una
sorta di panacea per tutte le sofferenze mentali è diffuso e certamente
comprensibile. Lo psichiatra Roger Walsh ricorda un ritiro di tanti anni
fa, in cui ebbe l’opportunità di osservare Ram Dass alle prese con un
giovane che aveva avuto una crisi psicotica durante la pratica. «Oh,
bene», si ricorda di aver pensato; «adesso vedrò Ram Dass affrontare in
modo spirituale uno psicotico». Dopo aver osservato Ram Dass salmodiare
insieme al giovane tentando di creare in lui una centratura meditativa,
Walsh notò che fu necessario trattenere il giovane, a causa della sua
agitazione e violenza crescenti.
A un certo punto, il ragazzo morse Ram Dass sullo stomaco, provocando
un’immediata richiesta di Torazina, un potente farmaco anti-psicotici.
Il desiderio di evitare la medicina con la pratica spirituale, di
affrontare la mente nel suo stato primitivo, è certamente nobile, ma non
sempre realistico.
Negli ambienti del dharma, la cura farmaceutica dell’ansia mentale
continua a essere vista con diffidenza; esistono dei pregiudizi contro
l’uso di medicine per correggere gli squilibri psichici. Così come alla
malata di cancro viene chiesto di assumersi la responsabilità di
qualcosa che potrebbe non dipendere da lei, allo studente depresso del
dharma si dà troppo spesso il messaggio che nessun dolore è troppo
grande per non poter essere affrontato sul cuscino di meditazione, che
la depressione è l’equivalente della debolezza o stanchezza mentale, che
il problema è nella qualità della pratica e non nel corpo. Ricordo quei
pregiudizi quando studiavo psichiatria.
Ero molto diffidente verso tutti i farmaci psicotropi, e ponevo sullo
stesso livello il litio e gli anti-psicotici come la Torazina, che
mascherano o reprimono i sintomi psicotici senza correggere la
condizione schizofrenica di base. Una delle poche cose concrete che è
valso la pena imparare in quegli anni di studio, fu che esistono davvero
molti stati psichiatrici che è possibile curare o prevenire con l’uso
di farmaci, e che la negazione di tale cura è una follia.
Ciò non vuol dire che sia sempre chiaro quando un problema è chimico,
psicologico o spirituale. Non esistono esami del sangue per la
depressione, a esempio. Tuttavia, certe costellazioni di sintomi
mostrano invariabilmente la presenza di una situazione curabile che
difficilmente si risolverà grazie alla sola pratica spirituale.
Peggy arrivò alla pratica del dharma poco dopo aver compiuto venti
anni, mentre attraversava un periodo di profonda depressione. Sperduta
nella controcultura, disaffezionata alla madre divorziata, alcolizzata e
prepotente, esilmente legata al padre introverso e indulgente, stava
prendendo in considerazione il suicidio quando si imbatté nel suo primo
insegnante del dharma, a San Francisco. Sentendosi “scoperta” da
quell’insegnante, abbandonò l’idea del suicidio e si tuffò nella pratica
del dharma per i successivi diciassette anni.
Ma quando cominciò a conoscere da vicino un insegnante dopo l’altro,
perse la capacità di idealizzarli come aveva fatto in principio, e
gradualmente si disilluse. Successivamente, la madre si ammalò di
cancro, una relazione che durava da cinque anni finì e, allo scoccare
dei quaranta anni, la sua migliore amica ebbe un figlio. Allora Peggy
diventò sempre più chiusa e ansiosa. Si sentiva stanca e nervosa, debole
e letargica (ma incapace di dormire), piena di pensieri ossessivi e
carichi d’odio, incapace di concentrarsi sul lavoro o sulla pratica del
dharma.
Si mise a letto, perse interesse negli amici e cominciò a pensare di
essere già morta. I suoi amici la portarono in una comunità spirituale,
da molti guaritori e da diversi autorevoli insegnanti buddisti che alla
fine l’indirizzarono verso le cure psichiatriche. Come si scoprì, dalla
parte materna della sua famiglia esistevano casi precedenti di
depressione. Peggy era convinta di essere condannata a ripetere il
declino di sua madre; si sentiva un fallimento come buddista, e tuttavia
era restia a considerare la sua depressione una condizione che
giustificava la cura medica.
Dopo quattro mesi di assunzione di antidepressivi, cominciò a
sentirsi meglio; continuò tale cura per un anno, e da allora non ne ha
più avuto bisogno. Durante la depressione, era semplicemente incapace di
trovare la concentrazione necessaria per meditare efficacemente. Il
“punto di vista assoluto” che descrive Kalu Rinpoche non era alla
portata della sua consapevolezza.
La tradizione psichiatrica con più esperienza nella distinzione tra
malattia mentale esistenziale e biologica, è probabilmente quella
tibetana, formatasi in una cultura e una società completamente immerse
nella teoria e pratica del buddismo. Le autorità mediche tibetane
riconoscono diverse “malattie mentali” per le quali consigliano
interventi farmaceutici e non meditativi; tra esse, molte corrispondono
alle diagnosi occidentali di depressione, malinconia, panico,
depressione maniacale e psicosi. Non solo la meditazione non viene
sempre consigliata come primo trattamento, ma si riconosce che spesso
essa può aggravare tali condizioni.
In realtà, è ben noto che la meditazione, in sé, può provocare una
patologia psichiatrica, uno stato di ansia ossessiva che è un risultato
diretto del tentativo di concentrare la mente in modo rigido e
inflessibile sull’oggetto di consapevolezza. Come scrive la compianta
Terry Clifford nel suo libro Tibetan Buddhist Medicine and
Psychiatry, secondo la tradizione tibetana questi insegnamenti
medici furono esposti dal Buddha nella manifestazione di Vaidurya,
all’interno del paradiso mistico della medicina chiamato Tanatuk,
il cui significato letterale è: “Ciò che dà piacere quando lo si
osserva”.
Qui, si dice che Vaidurya abbia detto che “tutte le persone che
desiderano meditare, raggiungere il nirvana e godere di buona salute,
lunga vita e felicità, dovrebbero imparare la scienza della medicina”.
Le cure per le malattie mentali non sono antitetiche alla pratica del
dharma; anzi, sembra che gli insegnamenti tibetani sostengano che esse
possono essere venerate come manifestazioni del Buddha della Medicina
stesso.
Tuttavia, oggigiorno molti studenti del dharma afflitti da tali
malattie mentali hanno difficoltà a identificare le cure efficaci come
manifestazioni del Buddha della Medicina. Sembra che preferiscano
considerare i loro sintomi come manifestazioni della Buddha-mente. Per
esempio, di recente ho avuto un paziente di nome Gideon, brillante
matematico teorico, professore universitario e persona orgogliosa,
caparbia e creativa, che durante gli studi universitari si è avvicinato
alla pratica buddista. In quegli anni, egli ebbe un “esaurimento
nervoso”: per sei mesi fu inquieto e agitato, sperimentava fiammate di
energia creativa, nella mente frenetica i pensieri si accavallavano uno
sull’altro, i suoi stati d’animo erano labili e lacrime e risate si
succedevano in breve tempo; inoltre, aveva molta difficoltà a dormire.
Alla fine crollò e passò una settimana all’ospedale, ma nei
successivi cinque anni non ebbe più problemi. Dai trenta ai quaranta
anni ebbe molte crisi depressive; la sua produttività al lavoro diminuì,
si sentiva triste e chiuso, e si ritirò in una sorta di penosa
solitudine. Essendo fortemente contrario alle cure mediche, superava
quelle depressioni chiudendosi nel suo appartamento e restando sdraiato
nel buio della sua stanza. Poi le crisi finirono e Gideon riuscì a
tornare al lavoro.
Dopo i quaranta anni ebbe una serie di crisi, molto simili
all’esaurimento nervoso della gioventù, ma questa volta divenne anche
paranoico: udiva messaggi speciali che gli venivano inviati attraverso
la televisione e la radio, e che lo mettevano in guardia contro una
cospirazione. Il ricovero psichiatrico fu richiesto dopo che venne
indotto a cercare riparo in Central Park.
La malattia di Gideon era maniaco-depressiva: un disturbo episodico
del carattere che di solito comincia a manifestarsi nella prima età
adulta e che può provocare depressioni ricorrenti, euforia o una
combinazioni di tutte e due. Caratteristica di questa malattia è che le
crisi vanno e vengono, e tra l’una e l’altra il soggetto ritorna allo
stato normale. Molte persone affette da tale malattia ritengono che le
crisi siano prevenibili o almeno fortemente ridotte dall’assunzione
quotidiana di sali di litio. Gideon opponeva una grande resistenza
all’idea di avere questa malattia e all’assunzione di litio.
Citava il dharma della “mente che prende rifugio nel suo stato
naturale” per giustificare il rifiuto di prendere medicine. Dopo i
quaranta anni, le crisi maniacali colpirono ripetutamente Gideon, con
frequenza di quasi una all’anno, compromettendo seriamente la sua
carriera accademica. Per un certo periodo di tempo, la famiglia cercò di
mettergli a sua insaputa le medicine nel cibo, ma ciò servì solo ad
accrescere la sua paranoia.
A tutt’oggi, egli si rifiuta di assumere volontariamente medicine.
Gideon resta un uomo orgoglioso e dall’intelligenza vivace, capace di
lavorare produttivamente tra una crisi e l’altra, ma la malattia lo sta
destabilizzando inesorabilmente.
Attraverso questi episodi, intendo chiarire che né la meditazione né
la medicazione sono uniformemente benefiche in tutti i casi di
sofferenza mentale. La pratica della meditazione può essere di
grandissimo aiuto o può contribuire a rafforzare il rifiuto. Negli
ambienti del dharma esiste ancora molta ignoranza sui benefici del
trattamento psichiatrico, così come nell’ambiente psichiatrico esiste
un’ignoranza corrispondente sui benefici della pratica meditativa.
In aggiunta, nella storia della psicoanalisi c’è uno spiacevole
parallelo all’attuale pregiudizio degli ambienti del dharma contro le
cure farmaceutiche. Il primo gruppo di seguaci di Freud era costituito
dagli intellettuali radicali dell’epoca. La fiducia e l’entusiasmo verso
questo nuovo e profondo metodo di cura li portò a considerarlo una
panacea, in modo molto simile a ciò che l’avanguardia di oggi sta
facendo con la pratica buddista
La figlia di Luis Comfort Tiffany, Dorothy Burlingham, figura di
spicco nella New York del primo novecento, lasciò il marito
maniaco-depresso a causa delle sue continue e incessanti crisi, e nel
1925 portò a Vienna i suoi quattro figli per cominciare un’analisi con
Freud. Dopo essersi trasferita nell’appartamento sottostante a quello di
Freud, Dorothy Burlingham cominciò una relazione con la famiglia Freud,
che la portò a vivere con Anna Freud per il resto della sua vita (morì
nel 1979).
Anna Freud divenne l’analista dei suoi figli, ma almeno uno di essi,
Bob, sembra aver ereditato la depressione maniacale del padre. La
tragica storia è stata raccontata dal nipote di Dorothy, Michael John
Burlingham, nel libro The Last Tiffany: Bob soffrì di
inconfondibili crisi maniaco-depressive e morì alla giovane età di
cinquantaquattro anni. Ma così grande era la fede di Anna Freud nella
psicoanalisi, che anche quando fu scoperta l’efficacia del litio nel
trattamento profilattico, non ne prese mai in considerazione l’uso. Bob
poteva essere curato solo con ciò che ricadeva nei parametri
dell’ideologia freudiana, notoriamente inefficace per la sua malattia.
Senza dubbio, esistono dei praticanti del dharma che si stanno
danneggiando allo stesso modo, per una fede simile nell’universalità
della loro ideologia. Queste persone farebbero bene a ricordare gli
insegnamenti del Buddha sulla via di mezzo, e soprattutto il suo
consiglio contro la ricerca della felicità attraverso
l’automortificazione delle diverse forme di ascetismo, da lui definite
“dolorose, senza valore e prive di beneficio”.
Ostinarsi a soffrire per una malattia psichiatrica, quando la cura è
misericordiosamente disponibile, non è altro che una pratica ascetica
contemporanea. Il Buddha stesso tentò queste pratiche ascetiche, ma le
abbandonò. Il suo consiglio è degno di essere tenuto in considerazione.
Nota: Tutti i nomi, i dettagli e le caratteristiche che possono
permettere un’identificazione dei casi trattati in questo articolo, sono
stati cambiati.
Mark Epstein è praticante buddista e psichiatra con studio privato a
New York.
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Mark Epstein. La continuità
d’essere. Una psicologia positiva per l’Occidente. Astrolabio. 2002.
ISBN: 8834013905
Mark Epstein. Lasciarsi andare
per non cadere in pezzi. Neri Pozza. 1999. ISBN: 8873056911
Erich Fromm, Suzuki, De Martino.
Psicoanalisi e buddhismo zen. Astrolabio. 1968. ISBN: 883400051X
Terry Clifford. Medicina
tibetana del corpo e della mente. Mediterranee. 1991. ISBN: 8827206078
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and the Way of Change. Broadway Books. 2002. ISBN: 0767904613
Michael John Burlingham. Last Tiffany: A
Biography of Dorothy Tiffany Burlingham. Atheneum.1989. ASIN: 0689118708
Originalmente pubblicato su Tricycle magazine, www.tricycle.com
Copyright originale Mark Epstein, per gentile concessione.
Traduzione di Gagan Daniele Pietrini
Copyright per l’edizione Italiana: Innernet.
tratto da www.innernet.it
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